Storia dell’Opera: Il settecento in Francia
Quinta Puntata
Parlando dell’opera in Francia nel secolo precedente, avevamo visto come, accanto alla tragédie–lyrique, si era andato formando il genere dell’opera-ballett. Ed è proprio questa forma di spettacolo quella che gode la maggiore popolarità tra il pubblico in questo inizio di secolo.
Uno dei maestri in questo genere fu Jean–Joseph Mouret (1682-1738). Giunto a Parigi dalla nativa Avignone, Mouret entrò al servizio della Duchessa du Maine, una delle “preziose” più in vista dell’ epoca, una donna “avida di sapere e di sapere proprio tutto”, così si diceva di lei. Dilapidando le fortune del marito, la Duchessa, con le sue “Grandes Nuits”, aveva fatto del suo castello di Sceaux il centro della vita culturale e mondana di Parigi, facendo impallidire Versailles. Mouret, l’anima musicale di questi intrattenimenti, diede vita a due nuovi generi musicali: l’opera pastoral e il ballett d’action. La sua opera “Le mariage de Ragonde”, rappresentata a Sceaux nel 1714 (una seconda versione, con il titolo “Les amours de Ragonda”, verrà presentata nel 1742), è un primo esempio compiuto di comédie en musique, un anticipo di quella che sarà un secolo dopo l’operetta di Offenbach. La felice caratterizzazione della vecchia Ragonde, cantata da un baritono “en travesti” e che non ha, come dice il libretto, che “que quatre dents”, degli altri personaggi, il tono pastorale ma allo stesso tempo brillante della musica (si notano citazioni ironiche di frasi tratte da opere di Lully), con danze vivaci e, soprattutto, una felice melodia, e che non perde mai d’ispirazione sono le caratteristiche principali di quest’opera.
Figura centrale dell’operismo francese del XVIII sec. è sicuramente Jean- Philippe Rameau (1683-1764). Attivo già da tre decenni come organista, teorico e compositore di musica strumentale, soprattutto per clavicembalo, egli giunse all’opera all’età di cinquantadue anni offrendo la tragedia in musica “Hippolyte et Aricie” che venne rappresentata per la prima volta all’Opéra il primo ottobre 1733. L’accoglienza fu piuttosto tiepida, ma andò via via crescendo nel corso delle recite, fino a trasformarsi in un grandissimo successo. I musicisti si lamentavano della difficoltà di questa musica e chiedevano tagli, mentre i vecchi sostenitori dell’opera di Lully si mostravano scandalizzati per l’audacia della musica di Rameau. Si diede così il via alla cosiddetta battaglia tra i lullisti e i ramisti, tra i difensori della tradizione e coloro che vedevano in Rameau il rinnovamento, una nuova via per la tragédie–lyrique. Anche il vecchio musicista André Campra guardava in questa direzione e commentò affermando: “In quest’opera c’è tanta di quella musica da scriverne altre dieci!”. Con il ritmo più o meno di un’opera all’anno, tra il 1733 e il 1745, Rameau compose cinque grandi opere ritenute da molti i suoi capolavori. Oltre la già citata “Hippolyte et Aricie”, ricordiamo, “Les Indes galantes”, “Castor et Pollux” (1737), “Dardanus”, “Les fetes d’Hebe” e “Platee” (1745). L’anno 1745 coincide quasi sicuramente con il momento di massima gloria per il compositore di Digione: ha ottenuto la carica di compositore de “la Chambre du roi” ed è universalmente ammirato e coperto di onori. Nel 1751, durante una rappresentazione di “Pygmalion”, Rameau, riconosciuto tra il pubblico, riceve un’autentica ovazione. Tutto cambia improvvisamente un anno dopo, quando una compagnia di musicisti italiani presenta a Parigi “La serva padrona” di Pergolesi. Il pubblico si infiamma e nasce un partito a favore dell’opera italiana. A caldeggiarlo è un gruppo di intellettuali chiamati gli enciclopedisti tra i quali Rousseau, Grimm, Diderot come massimi esponenti: essi sostengono la freschezza e la spontaneità dell’opera italiana contro la macchinosità della tragédie lyrique, propugnata, invece, dai ramisti. Il vecchio Rameau si trova involontariamente al centro di questa querelle denominata la “querelle des bouffons” (i “bouffons” erano gli italianisti) e da musicista rivoluzionario quale egli era all’epoca della comparsa delle sue opere sulle scene parigine, ora è diventato un compositore reazionario. Verranno scritti fiumi di parole, ma alla fine non ci saranno né vincitori né vinti e, sicuramente, nessun beneficio per entrambe le parti. Rameau, nonostante tutto, ha continuato a comporre grandi lavori come ad esempio “Les Paladines” (1761) e, nell’anno della sua morte, il 1761, “Les boreades”, portato in scena solamente in anni recenti. Rameau, maestro nell’arte dell’orchestrazione, è capace di raggiungere effetti prodigiosi anche con ensemble strumentale di poco spessore. Nessuna è un’orchestra “presente” in ogni momento dell’opera: canto ed orchestra viaggiano in una perfetta simbiosi, e la voce è trattata con stupefacente bravura. Fedele alla tradizione della tragédie-lyrique, Rameau pone sempre il recitativo al centro dello sviluppo teatrale, ma, al contrario del recitativo secco dell’opera seria italiana, il recitativo di Rameau “canta” sempre e il passaggio tra il recitativo e l’aria è pressoché inesistente. Rameau presenta l’aria stessa in varie forme trasformando ad esempio l’aria con da capo dell’opera italiana nel canto fiorito, rendendola così gradita al pubblico francese non ancora avvezzo a questo gusto vocale. Altro aspetto, non secondario dell’operismo di Rameau, viene dall’uso del coro, quasi onnipresente nelle sue opere, utilizzato in tutte le sue potenzialità, brillanti ma anche drammatiche, che apre la via alla futura coralità dell’opera gluckiana.
Accanto alla fondamentale figura di Rameau non si possono non ricordare altri importanti musicisti quali Jean–Marie Leclair (1697-1764) e Jean–Joseph Cassanea de Mondonville (1711-1772). Leclair, noto soprattutto come violinista, ha composto un’unica opera, “Scylla et Glaucus”, rappresentata a Parigi nel 1741. Accanto ad una scrittura orchestrale particolarmente elaborata e ricca di suggestioni, propensione che a Leclair veniva naturale in qualità di compositore essenzialmente di musica strumentale, sorprende altresì la cura che egli ha profuso alla linea vocale e ai caratteri psicologici dei personaggi. L’opera, che mancava inoltre del convenzionale lieto fine (la morte dei due protagonisti non rientrava nel gusto dei parigini), non venne molto compresa dal pubblico dell’epoca e non riscosse grande successo. Anche Mondonville era noto come violinista, ma ancor più come compositore di musica sacra della quale era un’autentica autorità. In campo teatrale, a differenza di Leclair, Mondonville ha più esperienza, compone tre opere tra le quali la più celebre è senza dubbio “Titon et l’Aurore”. Rappresentata nel gennaio del 1753, in piena “querelle des bouffons”, quest’opera doveva schiacciare definitivamente i sostenitori dell’opera italiana. Lo scopo venne raggiunto, ma il successo forzato o no che la partitura ottenne alla prima rappresentazione, non toglie nulla al valore dell’opera di Mondonville, carica di grazia, eleganza e leggerezza che ha consacrato al nome del compositore l’appellativo de “l’aimable Orphée”.
L’impossibile confronto tra la tragédie-lyrique francese e l’opera buffa italiana della “querelle des bouffons”, se non lasciò né vincitori né vinti, fece sì che parte dei sostenitori dell’opera italiana cercassero di creare un’opera comica francese. La strada venne aperta da Jean–Jacques Rousseau (1712-1778), celebre filosofo e scrittore, musicista autodidatta, e il più accanito nella querelle. Nel 1752 all’Académie Royale de Musique presentò la sua opera “Le divin du village”, risposta francese alla “Serva padrona” di Pergolesi. La partitura di Rousseau non ha nulla in comune con quella di Pergolesi, se non nel carattere di freschezza ed allegria, per il resto la presenza di un’ouverture (anche se di taglio italiano, a tre movimenti) e di un divertimento danzato, rientrano nel gusto del pubblico parigino dell’epoca. La via però è stata tracciata e, infatti, appena un anno dopo, il 30 luglio 1753, Antoine Dauvergne (1713-1797) rappresenta il suo intermèdie o opéra– comiquein un atto, “Les troquers”, preceduta dall’opéra-comique in un’atto “La coquette trompee”. Siamo in piena querelle ed in entrambi i lavori, in particolare ne “Le troquers”, si respira uno stile volutamente libero e musicalmente semplice che guarda chiaramente a Pergolesi, anche nel carattere dei protagonisti maschili, due bassi buffi, che ricordano l’Uberto della “Serva padrona”. Sono presenti infine i dialoghi parlati che sarà la caratteristica principale dell‘opera-comique francese.
Va subito detto che il termine opéra-comique non è legato al carattere comico del lavoro, ma al carattere principalmente teatrale dell’opera proprio per la presenza di parti recitate al suo interno. Con questo termine sono state in effetti classificate opere che di comico hanno ben poco come il “Faust” di Gounod o la “Carmen” di Bizet. Il carattere musicale dell‘opéra-comique, che si va sviluppando nella seconda metà del XVIII sec., presenta le caratteristiche che abbiamo visto per le opere di Dauvergne: una vocalità semplice, al contrario dello stile della tragédie-lyrique, che si esprime nelle forme dell’ ariete e del couplet. Trovano poi spazio i duetti, mentre, a differenza dell’opera buffa italiana, non hanno grande sviluppo le scene d’assieme alla fine degli atti. L‘opéra-comique termina generalmente con un vaudeville, un pezzo strofico affidato ai vari protagonisti e con un ritornello cantato dal coro.
I compositori principali di opéra-comique di quest’ultimo squarcio di secolo, sono sicuramente Francois–Andrè Danican Philidor (1726-1795) e Andrè Gretry (1741-1813). Philidor esordisce nell’opera nel 1759 con “Blaise le Savetier” ottenendo un lusinghiero successo. Autore di circa una ventina di opere, Philidor troverà la consacrazione definitiva con “Tom Jones” (1764), lavoro tratto dal popolare romanzo di Fielding, nel quale per la prima volta compare un quartetto a cappella, a testimonianza di uno stile compositivo originale e ricercato. Philidor era difatti un compositore particolarmente attento agli aspetti armonici che nei suoi lavori appaiono sempre piuttosto diversificati, così come varia dal punto di vista dell’espressione è la sua ariete. Lo stile, se vogliamo, più “sofisticato” di Philidor lo ha quasi certamente reso meno popolare del suo collega Gretry. Autore quanto mai fecondo (circa una cinquantina di titoli al suo attivo), ha composto opere di grande successo quali, “Le tableau parlant” (1769), “Zemire et Azor” (1771) che mette in musica la nota fiaba de “La bella e la bestia”, e “Riccard Coeur-de-Lion” (1784), opera quest’ultima considerata da molti il suo capolavoro. Gretry con il suo stile leggero, ma sempre dotato di una straordinaria cantabilità, rappresenta sicuramente il musicista di passaggio verso il romanticismo. Vissuto in un periodo di transizione, tragicamente segnato dalla Rivoluzione e dall’avvento napoleonico, il compositore infonde nella sua musica fremiti mai sentiti prima. Li percepiamo a tratti nel “Richard”, nell’aria di Blondel “O Richard, o mon roi”, mentre la malinconica dolcezza dell’arietta di Laurette, “Je crains de lui parler”, troverà un illustre citazione, oltre un secolo dopo, nel personaggio della contessa nell’opera “La dama di picche” di Ciajkovskij, nostalgico ricordo di un’epoca ormai irrimediabilmente trascorsa.
Alla prossima puntata…
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